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Un caleidoscopio di passioni

23 Aprile 2021

Incontriamo il docente Filippo Guggia

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Se gli chiediamo quale stoffa lo rappresenti meglio, è in difficoltà: una sola non basta a raccontare Filippo Guggia, docente di "Tecniche di confezione del costume maschile" per il Corso di sartoria teatrale.

“Sicuramente il broccato, morbido e ricco, che parla di un mondo sontuoso che mi affascina. Ma anche i materiali bielastici, che ho usato spesso quando lavoravo per le scuole di danza. Negli ultimi anni ho iniziato a mescolare, nello stesso costume, questi materiali elasticizzati con altri più fermi: più che una singola stoffa, quindi, mi descrive meglio la sperimentazione”.

 

“A chi si affaccia a questo mestiere – quello del tagliatore teatrale, ma più in generale quello del sarto dello spettacolo – raccomando di avere coscienza di quanto si sta facendo, la giusta percezione di cosa significhi lavorare in teatro; e amare, amare sempre ciò che si fa”.

 

Una raccomandazione preziosa e un’esortazione forte.

Classe ‘72, maturità scientifica, Filippo Guggia annovera nel suo curriculum collaborazioni con importanti sartorie teatrali come Farani e Brancato, o come la sartoria dell’Arena di Verona.

 

Com’è nata, Filippo, la tua passione?

“Come racconto sempre, io sono un bambino fortunato. Sono figlio di un cantante lirico, quindi ho sempre vissuto l’ambiente del teatro; quando potevo seguire mio papà, passavo le ore lì. E quando lui non poteva tenermi d’occhio, inevitabilmente finivo sotto l’ala protettrice di qualche sarta oppure a godermi da solo, da una poltrona, quel mondo magico. La sartoria in particolare, poi, è una vocazione che scorre nel sangue di famiglia: mia nonna, per sopravvivere durante la guerra, confezionava abiti da bambola per un negozio di Venezia, e i miei zii erano sarti.

Quando ero piccolo – avevo circa 7 anni – ricordo che nei Topolino si trovavano degli schemi per realizzare i costumi di carnevale e io ho iniziato così ad approcciare questo mestiere. Poi, da grande, ho frequentato l’Accademia di arte drammatica di Udine e ho seguito corsi di danza e canto, ma ho anche studiato architettura”.

 

Hai sempre saputo che quanto fai ora fosse esattamente il campo in cui volevi lavorare?

“No, prima mi attirava di più l’idea di conquistare il palcoscenico, essere un artista. Ma parallelamente affiancavo agli studi artistici le conoscenze tecniche: sono stato attrezzista, aiuto elettricista, aiuto macchinista... Sono stato addirittura l’ultimo siparista manuale del Friuli Venezia-Giulia! Il teatro è un universo che per me non ha segreti e in cui mi muovo molto bene, perché ho sperimentato di tutto.

Ma la passione più forte rimaneva sempre quella per i tessuti, la possibilità di ricavare qualcosa di tridimensionale da un materiale che appare in due dimensioni.

Credo di avere una certa predisposizione naturale per questo mestiere, cosa che dà ovviamente una marcia in più: non è indispensabile - "sentirlo nelle vene" e avere occhio - ma sicuramente fa la differenza”.

 

E poi è arrivata la cattedra, la chiamata all’insegnamento…

“Sì, in modo del tutto casuale, per via di un passaparola. All’inizio ero timoroso, mi preoccupava l’idea di non riuscire a trasmettere quello che so, di non essere ancora pronto per questo. Ma l’imbarazzo iniziale è svanito quando ho visto che riesco ad appassionare – così dicono gli studenti. Adesso, insegnare mi piace per due aspetti: in primis chiaramente il fatto di passare a dei giovani il mio sapere. Ma anche perché insegnare rappresenta una sfida con me stesso, mi costringe a studiare, ad aggiornarmi e anche a ragionare su cose che io faccio da anni in maniera istintiva".

 

C’è differenza nel lavorare in una sartoria interna al teatro o in una esterna che fa forniture?

“La differenza sostanziale è che se lavori per una sartoria esterna non vedi vivere il tuo lavoro. Questo accade anche nei grandi teatri, dove il laboratorio è tale che chi produce e chi si occupa di manutenzione sono persone diverse. Allora, chi confeziona il costume deve recarsi poi in teatro come spettatore, per vedere quell’abito in palcoscenico, e anche così l’emozione non è la stessa”.

 

Parliamo del taglio: un ragazzo che inizia il corso in Accademia, per esempio, è subito pronto per affrontarlo o ci sono dei passaggi propedeutici?

“Non è una cosa immediata; io credo di averci messo sette, otto anni prima di padroneggiare la materia e proporre cose che fossero di buon livello. Per saper tagliare un abito – stiamo parlando del taglio teatrale – è necessario sapere realizzare il costume. Un buon corso, quindi, deve prevedere entrambe le cose, magari non consecutive ma simultanee.

Saper tagliare un costume teatrale, infatti, significa avere in mente come sarà la confezione. Io consiglio ai ragazzi che vogliono seguire il Corso di sartoria teatrale dell’Accademia di avere già una buona base di sartoria civile e su quella base costruire il percorso che porterà a diventare tagliatori storici. Come farlo? Con un po’ di curiosità, affiancando un maestro, appassionandosi al lavoro”.

 

C’è un abito che rappresenta, per te, una sfida?

“Il frac, nella sua versione novecentesca; è un elemento di sfida molto forte.”

 

Ci puoi raccontare una curiosità del tuo lavoro?

“Insegno sempre ai ragazzi ad allacciare i busti femminili dal basso verso l’altro, contrariamente a come si fa nella moda. Io tendo a stringere fino ad un certo punto, dando alle cantanti la sensazione di costrizione, e poi metto una mano all’interno per allacciare l’ultima parte. Regolarmente loro si lamentano quando sentono stringere, pensando di non riuscire a respirare, ma quando sfilo la mano si accorgono di avere tutto l’agio di cui hanno bisogno.

Ma potrei raccontare molte cose, in teatro succede di tutto: perfino cambiare completamente un artista dietro le quinte e poi ricordarsi che non andava fatto e rivestirlo una seconda volta in pochissimi istanti!”

 


Foto: Filippo Guggia al taglio nel suo laboratorio, foto (c) Belinda De Vito

 

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